lunedì 26 novembre 2007

Tango di Cesare Pavese

Mi son visto una notte in una sala chiusa e l’abbraccio dei corpi che danzavano, sollevati e schiantati dalla musica, sotto la luce livida che filtrava nei muri, di lontano, mi soffocava il cuore come in fondo a un abisso, sotto il buio. Tra bagliore e bagliore, giungono spaventose scosse di una tempesta, che impazzisce là in alto, sopra il mare. Mi giungevano a tratti, pallide e stanche, le ombre dei danzatori, vibrazioni di un mare moribondo. E vedevo i colori, delle donne abbraccianti illividirsi anch’essi, e tutto rilassarsi di spossatezza oscena, e i corpi ripiegarsi, strisciando sulla musica. Solo ancora splendevasu quella febbre stanca il corpo di colei che fiorisce in un volto tanto giovane e chiaro da fare male all’anima. Ma era solo il ricordo. Io la guardavo immobile e la vedevo, dolorosamente, nella luce del sogno. Ma passava strisciando, senza scatti più, languida, con un respiro lento e mi pareva un gemito d’amore, ma l’uomo a cui s’abbandonava nuda forse non la sentiva. E un’ubbriachezza pallida le pesava sul volto, sul volto tanto giovane e stupendo da fare male all’anima. Tutti tutti tacevano di ebbrezza, travolti dentro il gorgo di quella luce livida, posseduti di musica, nelle carezze ritmiche di carne, e stanchi tanto stanchi. Io solo non potevo abbandonarmi: cogli arsi occhi sbarrati, mi fissavo smarrito su quel corpo strisciante.

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