mercoledì 12 marzo 2008

Intervista a Piazzolla, Cile 1989

Astor Piazzolla: Un tango triste, attuale, cosciente


Durante la sua ultima visita in Cile, nel luglio del 1989, quando si esibì in un memorabile concerto al Teatro Oriente, Piazzolla rilasciò l’intervista che pubblichiamo. Una delle ultime testimonianze sulla propria ‘poetica musicale’.

Il tango oggi non esiste più, dice. Esisteva anni fa, fino al ’55, quando BAires era una città in cui si vestiva il tango, si camminava il tango, si respirava profumo di tango nell’aria. Oggi non più. Oggi si respira più profumo di rock o di punk. Il tango di oggi è solo un’imitazione nostalgica e noiosa di quell’epoca. Fatto salvo, come lui stesso dichiara, quello che lui compone: “Il mio tango sì è tango di oggi”. Già da tempo si annunciava la fine della musica portena. “Il tango è come il presidente Raul Alfonsin: moribondo” scherza.

Il musicista invece, questa domenica di luglio dell’89, è vispo, allegro, si è appena alzato da una lunga siesta che ha fatto seguito a un pranzo ricco di frutti di mare e di “quel vino speciale che avete voialtri” con parte del suo conjunto al Mercato Centrale di Santiago. I suoi 69 anni stanno in un pigiama rosso a disegnini e non vuole che lo si fotografi così. Però parlare sì, questo a Piazzolla fa piacere.

Ha voglia di raccontare come si è indirizzato all’arte del comporre, come ha amato la musica e come ha difeso la propria, come lo aiutò Nadia Boulanger, sua maestra a Parigi, a scoprire che il suo stile stava lì, nel tango, e non nella musica europeizzante che aveva composto fino agli anni 50. 

Racconta come lo ha sempre infastidito essere conosciuto solo per Balada para un loco: “Una volta una signora mi ha avvicinato e mi ha detto –Maestro, oltre alla Balada cosa ha scritto?- ed io ho avuto una gran voglia di picchiarla…”.

Racconta come fosse sovraccarico di incarichi: per un quartetto di archi, un altro di chitarre, un quintetto di fiati, tutti per interpreti nordamericani. “Sembro un supermercato della musica”. E di come la sua vita si potesse riassumere in un solo tango, un tango molto porteno, molto triste, “non perché io sia triste”, dice, “al contrario io sono un pazzo, uno sciocco felice, mi piace divertirmi, mi piace bere, il mangiar bene, amo la vita e la mia musica non avrebbe nessun motivo di essere triste. La mia musica è triste perché il tango è triste. Il tango ha radici tristi e drammatiche, a volte sensuali, conserva un po’ tutto… anche radici religiose: il bandoneon fu inventato in Germania per accompagnare le liturgie. Il tango è triste e drammatico ma mai pessimista. Erano pessimisti i testi di una volta, assolutamente assurdi”.

Ci parla di come non ami il pubblico spagnolo (“non mi capiscono e nemmeno sanno pronunciare correttamente il mio nome”), a differenza di quello cileno, che ha da sempre compreso la sua musica (dalla prima volta nel 72). Una musica che come lui stesso dice “non è facile”.

‘E allora perché non studi?’

Non è stata semplice la mia lotta... Molto piccolo, quando ancora vivevo a New York, ho iniziato a suonare il bandoneon, e appena tredicenne ho avuto la fortuna di accompagnare il grande Carlitos Gardel. Ho lavorato anche per ‘El dia que me quieras’, interpretata dal ‘Zorzal criollo’. Intorno ai 17 anni sono rientrato con la mia famiglia a Mar del Plata e dopo qualche frustrante tentativo di studio di contabilità ho deciso di dedicarmi completamente alla musica. Ne ero profondamente innamorato e sapevo che quella scelta sarebbe stata per sempre. La musica è più di una moglie. Da una moglie puoi divorziare, dalla musica no. Una volta scelta diventa il tuo amore eterno e ti segue fino alla tomba.

In quel periodo suonavo il bandoneon in tutti i cabaret di BAires e cominciai a comporre. Con una gran faccia tosta mi sono presentato a casa di Arthur Rubinstein (che allora viveva nella capitale) con uno spartito sotto braccio. Era un opera orribile – ricorda sorridendo. In tutti i modi ho obbligato Rubinstein a leggerlo e già mentre lo eseguiva mi resi conto della sciocchezza che avevo fatto. Lui ha suonato un po’ e poi si è fermato a guardarmi. “Ti piace la musica?” mi ha chiesto. “Molto maestro”. “E allora perché non studi?”.

Fu lo stesso pianista polacco a chiamare il suo amico e compositore Alberto Ginastera e a dirgli che c’era un giovane ansioso di imparare. Alle otto di mattina del giorno dopo Ginastera, che in quel momento cominciava a presentare le opere che lo avrebbero reso famoso nel mondo, ebbe il suo primo allievo di fronte al piano, ed io il mio primo professore di composizione.

Era come far visita ad una fidanzata – sorride nostalgico Astor – mi ha insegnato il mistero dell’orchestra, mi ha mostrato le sue partiture, mi ha fatto conoscere ed analizzare Stravinsky. Mi ha fatto entrare nel mondo de ‘La consacrazione della Primavera’, che ho imparato a memoria. Le lezioni sono durate sei anni. Ed io mi sono lanciato a comporre come un folle. Ho litigato col tango e l’ho abbandonato completamente a favore di sinfonie, overtures, concerti per piano, musica da camera, sonate. Vomitavo un milione di note al secondo.

E come era la musica di ‘quel’ Piazzolla?

Aspetta, ora arriva la storia. Io ho scritto, scritto, scritto per circa dieci anni, senza mai fermarmi. Finchè nel 53 Ginastera mi chiama e mi dice che c’è un concorso per compositori argentini. Gli dissi di no, che si stavano presentando solo dei grandi nomi… ma alla fine mandai un mio spartito che si chiamava ‘Sinfonietta’ e ricevetti dalla critica il premio per la migliore opera dell’anno e il governo francese mi diede una borsa di studio per lavorare a Parigi con Nadia Boulanger.

Da quel momento niente fu più lo stesso per Piazzolla. Dovette andarsene in Europa perché una francese gli dicesse chi era e gli insegnasse riscoprire la particolarità del suo lavoro.

Mi presentai così con tutti i miei chili di sonate e sinfonie sotto il braccio: “Maestra, questo è il mio premio e qui ci sono le mie opere”. Lei lesse tutte le partiture, cominciò ad analizzare la mia musica e se ne uscì con una frase che mi sembrò terribile: “Sono molto ben scritte”. Quindi un lungo silenzio e poi: “Qui trovo Stravinsky, qui Bartok, qui Ravel… però sai cosa non trovo? Piazzolla”. E comincià ad indagare sulla mia vita, cosa facevo, cosa non facevo, cosa suonavo, dove vivevo, se ero sposato, fidanzato, single, sembrava l’FBI! Io avevo una vergogna incredibile a dirle che ero un musicista di tango. Alla fine le dissi che suonavo in un night club, non volevo dire cabaret, e lei: ‘In un cabaret vero?’. Era incredibile. Le avrei tirato una radio in testa, non le si poteva mentire.

“Lei mi dice che non è un pianista, che strumento suona allora?” – insiste lei – non volevo dirle il bandoneon, ero convinto mi lanciasse dalla finestra del quarto piano con strumento e tutto. Finalmente glielo dissi e mi chiese di accennare a qualcosa di mio. Lei mi ascolta, spalanca gli occhi, mi prende la mano e fa: “Pezzo di idiota! Questo è Piazzolla!”. E in due secondi cancella tutta la musica che avevo composto in dieci anni di vita.
Nadia Boulanger lo fece studiare per 18 mesi, che gli servirono come fossero stati 18 anni. “Dopo questo – gli diceva – potrai scrivere un quartetto di corde come si deve. Così si che imparerai”.

Lei si mi ha insegnato a credere in me stesso, e nella mia musica. Io che ero convinto di essere spazzatura perché suonavo tango in un cabaret, in realtà avevo qualcosa chiamato ‘stile’. Sentii una specie di liberazione. Mi liberai di colpo del tanguero vergognoso che ero e mi dissi: “Bene, quindi è questa la musica da seguire”.

Lei ha qualche particolare allievo di cui si sente orgoglioso? Ci sono musicisti che possono considerarsi suoi discepoli?

Ognuno dovrebbe ricercare il proprio stile. Se scrivono come me peggio per loro! La mia impronta consiste nell’aver studiato. Se non avessi studiato di sicuro non farei quello che faccio. Tutti credono che fare tango moderno si limiti a ‘fare rumore’, fare cose strane, e non è questo! Bisognerebbe andare in profondità e capire che quello che faccio è molto complesso. Se penso ad una fuga allo stile di Bach, sarà sempre “tanghificata”.

Questi due elementi producono uno strano fenomeno nella sua musica: si ascolta nelle radio, in programmi popolari e insieme nelle sale da concerto…

Beh, con Gershwin accade lo stesso. Villa-Lobos è già molto popolare, ascoltare Bartok non è più cosa rara…

Ma Bela Bartok non si ascolta nei programmi popolari…

Però provi a pensare a quello che accade con Bartok… nei thriller nordamericani quando c’è un momento di violenza ecco che compare ‘Musica per archi, percussioni e celesta’, o ‘La consacrazione’ di Stravinsky, o un Mahler. La musica che una volta (parliamo con Bartok degli anni 20) era considerata contemporanea oggi si usa normalmente.

E come si sente di fronte a tutta la musica posteriore?

Io non sento un musicista contemporaneo come posso sentire Bartok, Ravel fino a Penderecki e Lutoslawski. Uno Xenakis, non lo sento. Lo rispetto, si, rispetto Xenakis, Brown, Boulez... Una volta stavamo provando e dico: “Se qui aggiungiamo un arco cominciamo a suonare musica contemporanea”. “E che hai contro la musica contemporanea?” mi ha chiesto Gerardo Gandini (il pianista e compositore argentino che lavorava allora con me). “Non sono contro, semplicemente sarebbe una cosa strana” ho risposto. La musica contemporanea è qualcosa di strano. Assomiglia a qualcuno che sta scoprendo qualcosa… che c’è ma ancora non c’è…

Pensa che sia uno stadio sperimentale?

Si, immaginiamoci un vaccino che ancora non è in vendita. La musica contemporanea c’è ma ancora non è sul mercato.

A proposito di mercato. Molti musicisti, incluso lo stesso Gandini, separano la musica tra commerciale e non commerciale. Non la infastidisce che la sua sia inclusa nella prima categoria?

No, affatto. Mi offenderei se la mia musica fosse definita ‘leggera’, senza peso. La mia musica è una musica da camera, popolare, che ha origine nel tango e assume volti molti diversi. Se fossi stato un musicista contemporaneo non avrei potuto fare quello che faccio. Io posso arrivare ad una poliritmia o a un bitonale o tritonale (di cui faccio molto uso) ma non vado oltre per mantenere sempre un senso ritmico. Tengo uno swing di fondo e la parte alta la adorno con la musica.

L’audacia sta nell’armonia?

Nell’armonia, nei ritmi, nei controtempi, nel contrappunto di due o tre strumenti, che è molto affascinante. L’audacia sta nella ricerca di qualcosa che sia anche a-tonale. Per questo ci capiamo con Gandini, sennò non avrebbe suonato con me.

Per questo però ha avuto tanti problemi in Argentina, proprio per aver introdotto elementi estranei al tango.

Mah... cambiano i presidenti e non ci si lamenta, cambiano vescovi, cardinali, giocatori di futbòl, qualunque cosa ma il tango no, quello deve rimanere antico, noioso, ripetitivo…

Il cambiamento che lei ha introdotto nel tango non è stata una forma di europeizzazione?

No, io credo che quanto più si dipinga un paese tanto più si dipinge il mondo. Grazie alla mia musica molto portena sto lavorando in tutto il mondo. Si sente tutto il folklore e la particolarità di un'altra cultura. E’ quella la forza.

Non crede che la critica mossa a Villa-Lobos di aver europeizzato la musica brasiliana per renderla gradevole agli europei possa essere mossa anche a lei?

No, questa è una sciocchezza. Credo che Villa-Lobos sia al cento per cento brasiliano. La sua musica da camera è eccellente e totalmente brasiliana. La loro è una musica popolare invidiabile, molto intuitiva, noi forse siamo ‘troppo’ colti…

Più razionali… Quanto di europeo c’è nel suo tango? Quanto di Stravinsky o Bartok e quanto di Gardel?

Una volta un critico di New York ha detto una grande verità: tutto quello che Piazzolla fa ‘in alto’ è musica, e sotto si sente il tango.

(c) 1989 Gonzalo Saavedra
trad. a cura di VogliadiTango

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